12. La storia in pubblico
Indice dei riferimenti e approfondimenti
Riferimenti
Un linguaggio tecnico e formalizzato.
Sulla differenza nel linguaggio e nel metodo tra la storia e altre scienze si è discusso ampiamente nella terza puntata.
Non è accidentale che la nostra arte più elevata.
La scienza come professione è insieme con La politica come professione parte di Il lavoro intellettuale come professione, uno dei testi nei quali Weber ha più chiaramente sintetizzato alcuni dei concetti che più hanno guidato l’insieme del suo pensiero.
Una doppia trama.
Tra i saggi di Mikhail Bachtin (1895-1975) Le forme del tempo e il cronotopo nel romanzo, contenuto in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino, 1979, dove si parla appunto della doppia trama o “doppio intreccio” proprio del romanzo storico, ha un ruolo importante nel chiarire i rapporti tra forme letterarie e percezione/elaborazione del tempo in una civiltà.
«Ma quella che aveva visto».
Stendhal era il nome letterario di Marie-Henri Beyle (1783-1842. La battaglie di Waterloo è nella Certosa di Parma, Rizzoli, Milano, 1980, il battesimo del fuoco del giovane Fabrizio del Dongo ma anche una straordinaria dimostrazione della distanza tra la storia vissuta e la storia narrata.
«Componimenti misti di storia e d’invenzione».
Del romanzo storico: e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione di Alessandro Manzoni è ora in Del romanzo storico e altri scritti, a cura di A. Tagliapietra, Mimesis, Milano, 2024.
Una definizione di vocabolario.
La definizione è tratta da Wikipedia.
approfondimenti
Public history.
Il termine risale agli anni Settanta, e alla nascita negli USA, in Canada e poco più tardi in Australia, di corsi di specializzazione con questo titolo: cofxi finalizzati prima di tutto a diversificare gli sbocchi professionali dei laureati in storia, preparandoli appunto ad attività divulgative, a cominciare da mostre o documentari televisivi o radiofonici. Nel 2020 è stata formata la International Federation for Public History. Solo gradualmente il termine è stato esteso a comprendere anche le molte altre forme di comunicazione storica di cui qui si parla, dalla fiction ai monumenti, e ha cominciato a essere usato non solo per parlare di una possibile “applicazione” del sapere storico formato nelle università al di fuori degli ambiti tradizionali dell’insegnamento scolastico e della ricerca/insegnamento universitari, ma anche per promuovere una riflessione critica sulla presenza sociale della storia vista nel suo insieme.
Con grandi interrogativi morali.
La storia fin dai tempi più antichi è stata soggetta a domande di ordine etico, soprattutto in quanto alcuni autori hanno teso a fare delle figure da loro narrate exempla, per riprendere il termine latino, di vizi e virtù. Ci si può chiedere, condizionati come siamo generalmente dall’idea che la scientificità richieda l’astenersi da giudizi e valutazioni, se questo non incidesse sulla qualità del loro lavoro di analisi e ricostruzione.Ma è veramente così? Non è questo il luogo per cercare di rispondere seriamente a un interrogativo così complesso, basterà ricordare che alcuni degli storici più grandi dell’intera cultura occidentale (e per noi indispensabili per conoscere e comprendere fasi importantissime della storia), come il latino Tacito, sono anche tra coloro che più sono attenti a fare emergere i dilemmi anche etici coi quali si sono confrontati i personaggi da loro descritti, e a descrivere alcuni degli abissi della malvagità umana.
Il problema del rapporto tra storia e riflessione etica si propone in termini particolarmente pregnanti nella storia contemporanea, perché in un’epoca che è povera di valori, oltre che di sistemi di credenze, condivisi si è finito con il fare di alcuni momenti, e personaggi, della storia non solamente exempla di vizi o virtù, ma addirittura incarnazioni di entità quasi metafisiche. Così Hitler e il nazismo vengono largamente identificati con il Male assoluto, e la storiografia su quell’epoca è sempre al confine di interrogativi di ordine etico: come sia stato possibile che “uomini come noi” si siano macchiati di crimini così orrendi, o come sia stato semplicemente possibile che si sia imposto nel consenso della quasi totalità delle persone un tipo di regime che si identificava, appunto, con il Male. Le migliori risposte a questi interrogativi, da La banalità del male di Hannah Arendt (Feltrinelli, Milano, 1964) a Uomini comuni di Christopher Browning (Einaudi, Torino, 1995), invitano a collocare quelle persone e quegli atti al di fuori della loro pretesa aura metafisica, a riconoscerli come realtà pienamente storiche,e a vederli come gente, appunto, quale molti di noi potrebbero essere. Ma il paradossale intreccio tra una storia che si vorrebbe scientifica e senza condizionamenti di valore e una storia così “morale” da tendere al mito è difficile da sciogliere, e non casualmente i testi citati soprattutto nel caso di Arendt, non smettono di far discutere.